Tommaso Caldera presenterà a Marzo il suo primo prodotto nato dalla collaborazione con B—Line. La sua idea di massima componibilità modulare ed estetica incontra perfettamente lo spirito di B—Line, così come il concept essenziale che contraddistingue la sua opera carica di versatilità e ponderatezza.
Classe 1986, laureato in Disegno Industriale al Politecnico di Milano, annovera collaborazioni con lo studio Odo Fioravanti di Milano e, successivamente, con lo studio di Jonathan Olivares di New York. Dal 2012 opera come Designer Indipendente dal proprio studio di Pavia partecipando con i suoi lavori al Salone del Mobile tramite aziende italiane e internazionali leader del settore. Nel 2013 viene selezionato dall’Istituto Italiano di Cultura di New York come Top Young Industrial Designer e dal 2016 è anche docente a Torino, Bologna e Milano.
La definisce Variabile Efficiente Singolare e si chiama AD.DA: quale sarà la sua proposta di design di imminente uscita?
Ecco come Tommaso Caldera racconta il suo incontro con B—Line ed il suo approccio al Design in una recente intervista.
Come hai conosciuto B—Line e come è iniziata la collaborazione?
Quello con B—Line è stato uno di quegli incontri felici, che iniziano intorno a un tavolo, partendo da un confronto sulle opinioni personali e sulla propria idea di questo lavoro. Ho incontrato Giorgio Bordin durante il Salone del Mobile del 2019. Non abbiamo iniziato a parlare subito di progetti o di brief, è iniziato tutto con un caffè e un po’ di chiacchiere. Solo dopo qualche tempo e un po’ di incontri, Giorgio mi ha chiesto di fargli qualche proposta su un brief specifico di cui l’azienda, in quel momento, aveva bisogno.
Come intendi il design soprattutto dopo questa pandemia? Quali sono le tue fonti di “nutrimento”?
L’auspicio è che tutte le dinamiche relazionali che hanno preso forma in questi mesi si dissolvano il prima possibile. È un lavoro fatto di incontri e confronti tra le persone, in cui la distanza e la mancanza di programmabilità e prospettiva futura non solo “incartano” il processo ma lo distorcono, introducendo variabili difficili da affrontare e aggirare. Ogni singola fase, sviluppata all’interno di confini specifici, ha poi bisogno di aprirsi ad un confronto “reale” tra le parti, al contrario si va verso un impoverimento e una sterilità del percorso progettuale.
Il principale “nutrimento” arriva dal lavoro di ricerca. Gran parte del lavoro in studio è dedicato all’indagine di quello che è stato fatto e che viene fatto in questo campo e nelle discipline attigue, l’obbiettivo è quello di avere sempre “il polso” della contemporaneità, personalmente questo tipo di conoscenza e consapevolezza permette una libertà di movimento altrimenti miope e contratta.
Che oggetti di design hai in ufficio e/o casa ai quali sei particolarmente legato?
Ho iniziato ad interessarmi al Design attratto dal legame tra le persone e gli oggetti di ogni tipo (da quelli più iconici a quelli più anonimi) e spinto dalla personale attrazione verso di loro. È quindi difficile individuarne uno specifico. L’ultimo oggetto che guardo prima di addormentarmi è una Mayday di Flos disegnata da Konstantin Grcic per Flos, il primo che guardo appena sveglio è un orologio da polso Longines degli anni ’60 verso il quale ho un legame personale. Sceglierei questi due come rappresentazione di inizio e fine di una giornata in cui ogni momento si lega ad un oggetto specifico.
Ci sono incontri/eventi/persone che hanno profondamente segnato la tua attività di designer?
L’incontro con Odo Fioravanti e gli anni in cui ho lavorato con lui sono quelli che hanno tracciato il solco per tutto quello che è venuto dopo e che sta succedendo ora. Mi ha tenuto “a bottega” insegnandomi tutto e capendo prima di me quando era arrivato il momento di lasciare il suo Studio.
È un campo in cui spesso i Maestri continuano a proiettare la propria ombra sulle persone che hanno cresciuto anche quando i percorsi si separano e in cui la paura degli stessi di perdere la propria influenza e posizione porta a dinamiche disfunzionali alla crescita del settore.
La fortuna di aver incontrato Odo e non qualcun altro è la stessa di quando un autobus ti schiva di pochi centimetri mentre stai attraversando la strada ma te ne accorgi solo dopo qualche metro perché eri assorto nei tuoi pensieri.
Ed un libro di design che consiglieresti anche ai neofiti?
“Molto difficile da dire” di Ettore Sottsass per Adelphi.
Sottsass è la personalità più eterogenea, poetica e interessante che abbiamo avuto in Italia nel campo del Design. Questo libro raccoglie una serie di saggi e pensieri che toccano vari aspetti del Design, dell’Architettura ed in generale del mondo del progetto. Il rischio di studiare i maestri, che siano contemporanei o del passato, è quello di tentare di emularne poi il percorso, scimmiottando un metodo ed un approccio che non sono propri. “Molto difficile da dire” non ripropone un percorso ma pone una serie di domande e prova a ragionare su alcuni temi, mostrando una complessità e ricchezza di pensiero verso le quali chiunque stia iniziando a fare questo lavoro dovrebbe tendere.